Perugia e l’Università per stranieri

«Europa Socialista», a. I, n. 8, 16-30 novembre 1946, p. 10.

PERUGIA E L’UNIVERSITÀ PER STRANIERI

Molti degli stranieri che ricordano Perugia per conoscenza diretta, al di là degli accenni dell’Italienische Reise di Goethe o di altri testi letterari piú o meno illustri, aggiungono certamente ai loro ricordi di una straordinaria acropoli e di un paesaggio civile e sublime, quello preminente dell’Università per stranieri: del suo fastoso palazzo settecentesco sul fondo di una strana piazza scoscesa al cui sommo sorge l’arco etrusco con la sua bizzarra e leggiadra contaminazione cinquecentesca, come della sua offerta d’incontro di genti di molti Paesi in un agio non comune di cultura e di ben ambientato riposo, di stimoli intellettuali e di socievoli possibilità.

Perché questo istituto, nato nel 1921 con corsi di studi francescani e di etruscologia e ampliato poi organicamente con corsi regolari di lingua, di letteratura, di storia, di geografia, di storia dell’arte, di grammatica storica, e con corsi di conferenze, non può pensarsi davvero fuori del quadro artistico, del nesso di bellezza e di storia in cui vive, fuori del rude idillio perugino; e in una città grande, a Roma, perderebbe il suo accento speciale, diventerebbe una qualsiasi appendice di una qualsiasi Facoltà di lettere, cosí che per dare una notizia obbiettiva di una istituzione, che può ben rientrare nelle linee di quegli scambi culturali diretti da cui un’Europa varia ed unita avrà agevolata la sua nuova vita, non si può parlarne senza parlare di Perugia, con cui ormai ha fatto corpo, al di sopra dei limiti provinciali che nel loro meglio portano pure un’aggiunta di concretezza all’esperienza italiana di uno straniero, come il carattere non solo geograficamente centrale di Perugia (dove Umbria e Toscana si toccano nelle loro ragioni piú profonde e certe dolcezze cittadine e certe asprezze piú campagnole si fondono) fa di questa città un luogo d’incontro adattissimo, con Italia e italiani, e quasi un originale spaccato della civiltà, della natura umana.

Senza concessioni al gusto pseudofrancescano che aduggia la metafisica Assisi o al travestimento dannunziano della «maschia Peroscia» (aiutati spesso dall’estetismo di molti stranieri e a cui si oppone a favore dell’autentica Perugia la testimonianza inedita di Montale o di Contini), è certo che questa robusta e sobria sintesi di mistero etrusco, di appassionata crudezza medievale, di rinascimento poco cedevole, di un’arcadia rustica ed invernale, opera potentemente in un paesaggio concreto ed ideale in cui agevolmente collaborano la tramontana impetuosa, la scultura dei Pisano, le campagne agitate o distese senza mollezza e la presenza acquisita di quel mondo sotterraneo di bellezza che è l’Ipogeo dei Volumni. Non c’è che dire: da qui l’Italia si vede bene e proprio fuori di quella boria nazionalistica che sopraggiunse anche prepotente nella vita dell’Università per stranieri con l’affermarsi del fascismo, con il suo contaminare da Mida deteriore tutto ciò che toccava, con il suo indebito sviluppo di una vena di malattia di sciovinismo cartaceo presente pericolosamente nella tradizione italiana, ma fino allora superata da un generoso senso del valore nella sua assolutezza. E, in verità, a volte anche degli stranieri portavano quasi la richiesta di una folkloristica boria o, con forme deteriori di un ridicolo classicismo, la estetistica approvazione di un’Italia con elmo di Scipio e con Inno a Roma. Boria nazionalistica, ripeto, che la cultura italiana non ignora nei suoi contrasti (almeno dopo il settecento) di orgogli di primati anche assurdi e di xenofilia provinciale ed inesperta, ben diversa anch’essa da quello spirito di valorizzazione della tradizione e delle opere italiane sentite come parte della valorizzazione generale della cultura tout court e come completamento della civiltà europea e mondiale.

Il male che ha deturpato l’Italia (cosí pronto a risorgere in nuove chiusure e in nuovi risentimenti), il nazionalismo che non può non diventare fascismo, va particolarmente vinto là dove esso può ingorgare ed ostruire quei canali di comunicazione con la vita degli altri popoli, impedire il passaggio di quella linfa, vitale soprattutto nella sua duplice direzione, che faticosamente anche negli anni “infelici” permise il contatto di genti diverse e che ora dovrebbe alimentare senza restrizioni la vita di un nuovo spirito europeo. Nell’Università per stranieri una simile disposizione ad un’italianità non gretta, aperta, anche al di là di una mazziniana gara di «missioni» dei popoli, ad affermare i valori italiani su di un piano spregiudicato e moderno, va naturalmente legata ad una decisa sprovincializzazione per quanto riguarda l’indirizzo e la struttura della sua direzione, del suo corpo insegnante perché, se il carattere perugino le è essenziale nel senso da noi indicato di un milieu umano e organicamente storico, il tono culturale deve esser tenuto nei termini piú alti consentiti dalla natura dell’Istituto. Cosí, se il consiglio direttivo di quest’istituto riconosciuto dallo Stato, ma autonomo, è giusto che sia composto dai rappresentanti degli enti locali e nazionali che ne contribuiscono al mantenimento, pare del tutto ragionevole che (secondo il progetto proposto al Ministero dell’Istruzione dall’attuale commissario Aldo Capitini), la competenza di tale consiglio venga qualificata mediante l’immissione di persone rappresentative della cultura italiana, che garantiscano il carattere dei programmi, la scelta degli insegnanti e assicurino soprattutto il funzionamento di regolari corsi universitari di alta cultura accanto alle già esistenti serie di conferenze tenute da diversi studiosi italiani.

Con tutto un nuovo orientamento nei nostri rapporti internazionali che vada coerentemente dalla politica alla cultura, anche l’Università per stranieri, nota all’estero proprio per il suo carattere di istituto autonomo (non di semplice Facoltà annessa alle normali Università), proprio per la sua sede perugina, potrà contribuire a quell’apertura viva dell’Italia al contatto diretto degli altri popoli, che è una delle condizioni essenziali della nostra nuova vita coraggiosamente italiana ed europea. Apertura e contatto che costituiscono una delle vie di cui il socialismo deve servirsi per la sua costruzione di una patria superiore: non un’illuministica entità di misure geometriche, di uguaglianza arida, ma un’Europa in cui le esperienze diverse collaborino in un unico spirito di società concreta ed aperta, in cui il piano economico corrisponda ad un’organizzata possibilità di una cultura ariosa, della cultura del «valore».